Vivere "la nausea". Lettera d'amore a Sartre - di Giusy Laganà
Caro Jean-Paul, Quando ti conobbi per la prima volta, ero troppo acerba e disincantata, impegnata a studiare la tua Simone De Beauvoir e il concetto di femminismo. L'indipendenza per me era, ed è tuttora, una priorità sociale irrinunciabile. All'inizio, ti reputavo troppo snob, il classico uomo che vuole tenere "due piedi in una scarpa". Troppi servi e troppi padroni nella tua filosofia. Troppo intellettuale e pieno di sé. Ma poi, con gli anni, pian piano che crescevo, e ogni tanto ti ritrovavo e ti leggevo, ho capito. Col tempo, ho interiorizzato il tuo pensiero senza saperlo. È successo. Perché quando si diventa adulti si capiscono tante cose. Si riesce a dare un nome al proprio pensiero, ai propri ideali, al proprio modo di vedere il mondo, al proprio stato d'animo. Ed è qui che vorrei soffermarmi.
Quarant'anni fa sei morto, lasciando ai posteri un esistenzialismo fatto di inquietudine e tormento. Il tempo che abbiamo è irreversibile, non torna più. Il tempo scorre lasciando un vuoto sempre più grande. Il passato diventa un grande buco. Ogni istante porta via un altro istante. Ogni istante si annulla e non possiamo trattenerlo, anche se vorremmo. Ci sono momenti in cui pensiamo di poter fare tutto, e altri in cui tutto crolla e capiamo che non possiamo fare più nulla. Rimaniamo immobili in balia di tutto ciò che avviene fuori di noi. Perché durante il vivere, tutto cambia di continuo. Le persone entrano ed escono dalla nostra vita, non ci sono mai inizi e mai conclusioni. Vivere è anche questo. Tutto continua, giorni su giorni. Tutto cambia solo quando la vita si racconta. Ma perché dico di averti compreso? Perché i tuoi pensieri sono anche i miei. Io, come te, sono vicino alla gente fisicamente, ma ricorro spesso a quella interiorità fatta di movimentati pensieri sotto la superficie.
Quel malessere che i tuoi editori hanno voluto chiamare nausea, e che tu invece, avevi inizialmente denominato melanconia, io l'ho sempre chiamata, erroneamente, noia. Ma non è ozio o non sapere cosa fare. È più un senso di fastidio al centro del petto che inizia a farti interpretare malamente la realtà. Tutto inizia a sembrarti privo di senso e forma. L'essere e il non essere iniziano a non avere più le stesse sembianze. Ogni cosa assume un aspetto nuovo. È la nausea che esplode dovuta all'inadeguatezza dell'essere.
Nel tuo famoso romanzo, La nausea, scrivi che può capitare, come succede al protagonista, Antoine Roquentin, di sviluppare una piccola folla di metamorfosi senza neanche esserne consapevoli che porta ad una vera e propria rivoluzione. Questo conferisce alla vita delle persone come noi, un aspetto angoloso e incoerente.
Subentra improvvisamente lo stato di paralisi in cui la passione muore, tutto si spegne. Iniziamo a sentirci sommersi e vuoti. Io tendo a chiamarla inadeguatezza, ma credo si chiami inquietudine. Dovremmo ammettere che la tua nausea è senz'altro questo: rifiuto dell'essere in un non essere dell'esistenza stessa perché fatichiamo ad accettarla e ad accettarci. Tutto diventa nebuloso, tutto scuro, i pensieri diventano un fiume in piena.
Tutti gli oggetti che ci toccano e che ci sfiorano turbano la nostra precaria quiete emotiva. Io mi sento come Antoine, spesso, con la nausea che diventa gastrite, che diventa cervicale, che diventa disturbo e che vuole esigere isolamento. E' bisogno di solitudine emotiva perché l'essere ci danneggia. Cerchiamo costantemente un non essere che in fondo è troppo per la vita stessa.
Quindi caro Sartre, oltre ad essere uno dei miei capisaldi letterari, oltre alla stima e adorazione che nutro nei tuoi confronti e che adesso da adulta comprendo, in fondo credo anche di amarti, perché la tua filosofia intellettuale ha introdotto un malessere non legato solo alla diagnosi terapeutica, ma legato semplicemente a tutto ciò che stravolge il nostro vivere e che noi viviamo così. Tutto ciò legato all'esistenza, con i suoi limiti e i suoi infiniti.
Come con Virginia Woolf, la tua letteratura e il tuo pensiero, sono capaci di sciogliere nodi aggrovigliati nel tempo, che solo i libri possono liberare, ancora una volta. La nausea si vive o si racconta.